NON ERO MAI STATA SOLA CON MIA NIPOTE, FINO A QUEL GIORNO AL TACO PLACE

Non sono mai stata la babysitter di riferimento, non perché non ne avessi voglia, ma perché mia figlia Mira diceva sempre che non ero esattamente “il tipo di genitore moderno”. Non ho mai discusso. I seggiolini per auto erano come puzzle progettati da sadici. I biberon avevano sistemi di ventilazione all’avanguardia. Le borse per pannolini sembravano zaini militari con scomparti segreti. Tutto ciò che riguardava l’educazione dei figli, al giorno d’oggi, mi dava la sensazione di aver bisogno di un manuale di istruzioni solo per tenere il bambino nel modo giusto.

Eppure, quando Mira mi ha chiamato quella mattina – con la voce tesa per lo stress – non ho esitato. “Papà, so che è l’ultimo minuto, ma puoi badare a Ellie? La babysitter se n’è andata, l’asilo non viene a prendermi e ho un colloquio tra venti minuti”.

“Lasciala qui”, le dissi. “Ci penseremo noi.”

Sei minuti dopo è arrivata nel mio vialetto, mi ha fatto un corso accelerato di cinque secondi su tutto, dai pisolini agli spuntini, e mi ha consegnato mia nipote come una bomba a orologeria. Prima che potessi chiedere dove fossero i pannolini, ha baciato Ellie sulla fronte, mi ha ringraziato da sopra la spalla e se n’è andata.

Ho abbassato lo sguardo sul piccolo essere paffuto dalle guance paffute che mi fissava. “Bene”, ho detto. “Sembra che ci siamo solo io e te, piccolo.”

Siamo finiti al Taco Zone, non perché io sia un fan del fast food alle dieci del mattino, ma perché era tranquillo, caldo e aveva tavoli dove potevo sedermi senza preoccuparmi di sbavare sui mobili. Mi sono infilato nel tavolo all’angolo, con Ellie appollaiata sulle mie ginocchia come un pappagallo. Nella tasca del cappotto c’erano un barattolo di salsa di mele rubato dalla dispensa e un cucchiaio di plastica che avevo afferrato uscendo.

All’inizio si è dimenata. Le ho dato una ginocchiata, lei si è lamentata. Le ho dato un tovagliolo sgualcito e lei ha iniziato a strapparlo con la serietà di un ispettore delle tasse. Poi ha visto il mio cellulare a conchiglia – sì, ne uso ancora uno, e no, non mi interessa cosa ne pensino gli altri.

I suoi piccoli occhi si illuminarono. Premetti un pulsante e lo schermo si illuminò di blu. Lei sussultò. Come un vero, drammatico sussulto di bambino. Ridacchiai e lei appoggiò la testa al mio petto, completamente ipnotizzata dalla tecnologia più elementare del mondo. Afferrò la cerniera della mia giacca come se fosse la sua ancora di salvezza. E per la prima volta da anni, mi sentii necessaria in un modo che non fosse quello di riparare grondaie o accompagnare qualcuno all’aeroporto.

Poi la porta si spalancò con un suggestivo tintinnio di campanellini.

Una donna entrò come un fulmine: poco più che trentenne, con un abbigliamento casual da lavoro che suggeriva di aver perso da poco una battaglia con il traffico e le scadenze. Scrutò la stanza come se fosse in missione. Il suo sguardo si posò su di noi e le sue sopracciglia si aggrottarono.

Non ha esitato. Si è avvicinata con passo pesante, puntandoci un dito.

“È tuo figlio?” chiese. A voce alta. Troppo alta. “Qualcuno qui conosce quest’uomo?”

Mi bloccai. Ellie alzò lo sguardo, sorpresa. Le tremava il labbro.

La donna si avvicinò, con il telefono in mano come se fosse un distintivo. “Non ha nemmeno la borsa per i pannolini! Si sta addormentando su di lui come se avesse del cloroformio o qualcosa del genere!”

“Io… lei è mia nipote”, dissi, alzandomi a metà del tavolo. “Sua madre ha avuto un’emergenza, e io…”

“Non sta nemmeno piangendo. È sospetto! “

La voce mi si fermò in gola. Ellie era ormai completamente sveglia, con la confusione che le si dipingeva sul viso mentre la donna alzava il telefono come se fosse pronta a trasmettere in diretta streaming un’azione di rimozione.

Fu allora che una voce da dietro il bancone interruppe il caos.

“Dici sul serio adesso?”

Era Andrea. Non l’avevo riconosciuta subito: aveva i capelli raccolti in una coda di cavallo, indossava la divisa di Taco Zone ed era immersa fino ai gomiti in una vasca di guacamole. Ma la sua voce era inconfondibile. Abitava a tre porte di distanza da me, mi aveva visto accompagnare Ellie su e giù per l’isolato innumerevoli volte. Ogni primavera prendeva in prestito la mia scala.

La donna si voltò verso di lei. “Prego?”

“Quello è il signor Hollen”, disse Andrea, uscendo da dietro il bancone e asciugandosi le mani con un asciugamano. “Quella è sua nipote. Li vedo sempre insieme.”

“Cercavo solo di essere prudente”, disse la donna, ora un po’ meno sicura di sé. “Meglio prevenire che curare.”

Andrea incrociò le braccia. “Hai fatto una scenata. Hai spaventato il bambino. Forse la prossima volta, prova a fare una domanda prima di chiamare il 911.”

La donna arrossì. “Io… io stavo cercando di aiutarti.”

Ellie gemette, nascondendo il viso nel mio petto.

“Non mi hai aiutato”, disse Andrea. “Hai dato per scontato. A voce alta. Davanti a un bambino.”

La donna sbuffò, borbottò qualcosa tipo “mondo pazzo” e uscì sbattendo la porta alle sue spalle come una punteggiatura.

Mi sono seduta di nuovo, con il cuore ancora a mille. Ellie ha avuto un piccolo singhiozzo e poi, inspiegabilmente, ha ridacchiato. La tensione si è riversata nel mio corpo come l’aria da un palloncino.

Andrea si avvicinò e si accovacciò vicino al separé.

“Sta bene?” chiese, accarezzando delicatamente la schiena di Ellie.

Annuii. “È più tosta di me.”

Andrea sorrise. “Ha fatto bene, signor Hollen.”

Ho riso, con un suono tremolante ma sincero. “Non ho nemmeno portato la borsa per i pannolini.”

“Non ne aveva bisogno”, disse Andrea. “Aveva bisogno di te. “

Dopo qualche minuto, Ellie stava di nuovo sonnecchiando, questa volta con la guancia premuta contro il mio petto, completamente ignara del dramma che si era appena svolto.

Rimasi lì per un po’, sorseggiando un caffè tiepido che Andrea mi aveva offerto. Guardavo le macchine passare fuori, con il braccio stretto intorno a un piccolo essere umano che aveva piena fiducia in me. In quel momento mi resi conto che ero così preoccupato di fare tutto per il verso giusto che avevo dimenticato la cosa più importante: presentarmi.

Quando Mira venne a prendere Ellie un’ora dopo, le raccontai tutto. Impallidì, poi arrossì di rabbia, poi rise quando dissi che Andrea aveva chiamato quella donna. Mi strinse in un abbraccio, più forte del solito.

“Grazie, papà”, disse.

Guardai Ellie, che ora stava ancora sonnecchiando nel suo seggiolino. “È una brava bambina. Stai facendo un ottimo lavoro.”

“Anche tu”, disse Mira.

Non era molto. Ma era sufficiente a riempirmi il petto di un orgoglio silenzioso che non provavo da anni.

Più tardi quella sera, ho trovato una borsa regalo sul portico: dentro c’era una borsa per pannolini nuova di zecca con un biglietto di Mira: “Per ogni evenienza. Te lo sei meritato”.

Sorrisi, scuotendo la testa. Forse non ero poi così vecchia scuola, dopotutto.

E la mattina dopo mi sono ritrovata a chiedermi: quando potrò di nuovo fare la babysitter?

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